venerdì 18 novembre 2016

The Danish way


La maggior parte delle mamme che conosco sono come me: mediamente insicure, devotamente empiriche. 
Viviamo dilaniate tra le poche e imponderabili certezze dell’istinto materno e i modelli ideali: l’istinto ci dice sempre cosa fare, ma non abbiamo la forza di carattere necessaria per ascoltarlo; e i modelli ideali sono, appunto, ideali. 
Le mamme indecise arrancano dietro i consigli spassionati delle suocere e i fulgidi esempi delle amiche che ce l’hanno fatta: quelle i cui figli dormono nel proprio letto per tutta la notte dall’età di due mesi, mentre tua figlia, a quattro anni suonati, di notte ce l’hai ancora attaccata al fianco come una cozza verghiana. 
Rispetto a dieci anni fa, quando, se proprio volevi farti del male, andavi a leggerti i blog delle mamme che ce l’hanno fatta, le cose sono peggiorate: adesso sei costretta a confrontare la tua semi-avvilente realtà quotidiana con timeline di Fb infestate da documentati momenti di felicità e realizzazione familiare: le foto postate dalle temibili mamme del profilo accanto. 

In genere, le madri insicure si rifugiano nella manualistica, al cui fascino perverso non ho mai saputo resistere nemmeno io. Ho letto di tutto, applicato qualunque metodo, compreso Fate la nanna di quel sadico para-nazi del dottor Estivill. Il mio manuale preferito era quello che sosteneva che non esistono bambini capricciosi; solo bambini creativi. 
Creativi. 
È stato anche il più inutile. 

Mi sono dunque precipitata a leggere il Metodo danese per crescere bambini felici ed essere genitori sereni non appena ho avuto notizia della sua esistenza in commercio. 
I danesi, a quanto pare, sono il popolo più felice della terra e il motivo risiede nel fatto che sanno allevare felicemente i loro bambini. Vi ricordo che sono anche quelli che hanno inventato i Lego, quindi c’è da fidarsi, perché conosco un sacco di gente che si sente completa e appagata mentre gioca coi mattoncini e costruisce realtà parallele autarchiche. 

Si tratta di un manuale, quindi è di rapida lettura e facile consultazione: i concetti fondamentali sono distribuiti nell’acronimo PARENT, che significa “genitore” (ma non è geniale?) e sta per 

Play (gioco) 
Authenticity (autenticità) 
Reframing (ristrutturazione) 
Empathy (Empatia) 
No ultimatums (Nessun ultimatum) 
Togetherness (intimità e stare insieme) 

a cui corrispondono altrettanti capitoli; e il contenuto di ognuno di questi capitoli è maledettamente convincente e io VOGLIO essere serena e le mie bambine DEVONO essere felici; per cui le due autrici, una mamma americana e una psicologa danese, non possono non aver scritto il manuale che stavo cercando da un decennio, ormai. 

Dunque, ecco come si diventa danesi e felici: 

1) PLAY
Il gioco deve essere libero. I bambini devono essere incoraggiati a giocare da soli e i genitori devono intervenire il meno possibile. Tramite le situazioni di gioco, imparano a gestire l’ansia, diventano resilienti, sperimentano limiti e possibilità. I bambini non vanno trattenuti e non vanno spinti. Quello che invece di solito facciamo è proteggerli a oltranza da ogni stress, salvo cercare poi di costruire dall’esterno la loro sicurezza e autostima, elogiandoli per ogni cacatina di mosca che depositano su un foglio (ma è un disegno bellissimoooo! L’hai fatto tuuu? Ma che bravaaaa!). 
Qui parte l’elenco numerato di cose da fare (1. Spegni la tv. 2. Predisponi un ambiente stimolante e poi vattene. 3. Portali preferibilmente all’aperto, in un luogo sicuro e poi vattene. 4. Falli giocare con bimbi di età diverse (e poi vattene). Etc. 

(Ma è meraviglioso! Miei danesi adorati! Giusto! Sono d’accordo! Devono giocare da soli! Io mi annoio da morire a giocare con le mie bambine. Ecco. L’ho detto. Lapidatemi. Ma non potete! Perché non sono una mamma cialtrona e asociale: sono una mamma danese! Ora che ci penso, le persone che mi hanno cresciuta non giocavano mai con me. E io ricordo lunghissimi pomeriggi densi di gioco, stipati di ore e ore di invenzioni e corse e psicodrammi. La noia, se c’era, faceva da riempitivo. Non so se è stata una palestra di vita: quello che è sicuro, è che io sono una che SA gestire l’ansia). 
(E ho avuto un’infanzia bellissima). 

2) AUTHENTICITY 
Intanto le fiabe. Indovinate di che nazionalità era Andersen? Esatto. E le sue fiabe le avete mai lette ai vostri figli o avete solo lasciato che guardassero quelle carinissime edulcorazioni americane della Disney? Ma lo sapete che fine fa la Sirenetta, nella fiaba originale? Ecco: le vere, antiche, tradizionali, AUTENTICHE fiabe finivano tutte malissimo. 
Dicono le autrici: “Quando si vive un momento difficile, per esempio, sorridere e dire che va tutto bene non è sempre la linea d’azione migliore. Illudere sé stessi è la forma peggiore di inganno ed è un messaggio pericoloso che trasmettiamo ai nostri bambini. Impareranno a fare la stessa cosa”. 
Comunicate serenamente alle vostre figlie che no, Ariel non sposa il principe. 
E questo si ricollega direttamente al “metodo danese della lode”: stracciarsi le vesti per le cacatine di mosca, come dicevamo prima, non si fa. Meglio focalizzarsi sul processo che sul risultato (“Interessante questo soggetto. Come ti è venuto in mente? Come hai realizzato questo fiore? Etc.”). 
I bambini che ricevono lodi sperticate si faranno l’idea (pericolosa) che basti un minimo sforzo per ottenere ottimi risultati; questo significa che, alla prima difficoltà, getteranno la spugna o andranno incontro a grandi frustrazioni, anziché rimboccarsi le maniche e trovare il modo di superare gli ostacoli. 
E siamo di nuovo al punto uno: se li proteggiamo troppo perché pensiamo che da soli non possano farcela, loro, appunto, non ce la faranno. Se la verità fa male, l’alternativa più efficace non è dire bugie. Soprattutto se le bugie le raccontiamo, prima di tutto, a noi stessi. 

3) REFRAMING 
Ristrutturazione o ottimismo realistico. Bisogna concentrarsi sugli aspetti positivi, senza auto-illudersi: “Gli ottimisti realistici non fanno altro che rimuovere mentalmente le informazioni negative non necessarie”. Dagli esempi che fanno le autrici, deduco che si tratti sostanzialmente del vecchio metodo Pollyanna. Vabbè. 
Con i bambini, comunque, la ristrutturazione funziona così: bisogna “spostare la loro attenzione da ciò che pensano di non saper fare a ciò che sanno fare”. Mai usare quello che le autrici chiamano il linguaggio sintetico (“E’ così disordinata”, “Non è molto brava nello sport”, “E’ troppo sensibile”): etichette. 
Le stesse che hanno appiccicato a noi e sulle quali abbiamo imbastito la nostra vita di adulti. “Riflettete: quali sono le cose che pensate di voi, e quante di queste derivano da ciò che vi veniva detto da bambini?”. 

(Ahi. Io me la sono fatta questa domanda. 
Lasciatemi sola coi miei demoni). 

Comunque. I danesi non dicono “Non piangere!” o “Sei cattiva!” o “Non si fa così!” o “Dovresti essere contento!”. I danesi fanno domande, cercano di far riflettere i bambini sul modo e sui motivi per cui sono o agiscono in un certo modo, non danno valutazioni prescrittive e basta. 
Separano il comportamento dal bambino. 

(‘Na parola. Purché, di ristrutturazione in ristrutturazione, non si arrivi al vecchio: “Non esistono bambini capricciosi. Solo bambini creativi”). 

4) EMPATHY
Empatia. Cervello sociale. Il potere delle parole. Il sistema scolastico danese e i programmi danesi che insegnano l’empatia. 
Sì, ma passiamo al punto successivo, che è quello che ci interessa di più. 

5) NO ULTIMATUM 
NO??? Niente minacce? Nessun ricatto? Neanche una garbata avvertenza verbale che state per scatenare l’inferno nelle loro vite se non la smettono di slacciarsi le cinture di sicurezza mentre siete in autostrada? 
Allora, io che sono una madre cialtrona ma illuminata, all’abbiccì ci arrivo. Sculacciate no. E nemmeno: sennò arriva il lupo cattivo. Forse mia madre avrà inserito qua e là un “altrimenti Gesù Bambino piange”, ma tanto le mie figlie non sono battezzate. 
Però i danesi “vedono i bambini buoni per natura” e quindi non hanno bisogno di ricorrere alla minaccia a vuoto. 
Io non sempre ce la faccio. Opto per la minaccia iperbolica e perciò irrealizzabile, così non impegna (“Se non la smetti di picchiare tua sorella sulla testa ti stacco quelle gambette storte che ti ritrovi e poi te le riattacco a contrario”). Di solito si fermano, mi guardano un po’ preoccupate e poi sorridono. E continuano a picchiare la sorella sulla testa. Ma con meno convinzione. 
I danesi non urlano. Io sì, a volte mi scappa, e dopo non mi sento mai meglio. 
I danesi sono fermi ma gentili. Io ci riesco solo se ho dormito dodici ore di fila e sono appena tornata dal parrucchiere. 
“Evitate il braccio di ferro”. 
“La calma genera calma”. 
“Smettete di preoccuparvi di quello che pensano gli altri”. 
E soprattutto: “È davvero importante che i loro vestiti o capelli siano sempre perfetti? (NO. Questa la sapevo) 
“È davvero importante che non indossino un giorno in più quella maglietta di Batman? È davvero importante che finiscano subito tutto quel che c’è nel piatto perché lo avete detto voi? […] Ne vale davvero la pena?”. 
Su, rispondete sinceramente: ne vale sempre, davvero, la pena? 

Meglio concentrarsi sugli “orientamenti di fondo”, sul minimo sindacale, sull’economia di sussistenza. 
Se si fissano su qualcosa, dicono le autrici, distraeteli, spostateli, fateli ridere, offrite un’alternativa (Io, di solito, a questo punto della storia me ne esco con un: “facciamo i pancake?” Con le mie figliole funziona)
Seguono utili consigli pratici per evitare gli ultimatum. 

6) TOGETHERNESS 
Pare che questi splendidi danesi amino riunire periodicamente la famiglia per vivere dei momenti conviviali in armonia e intimità. Pare che faccia bene stare insieme alle persone care, con l’unico scopo di stare bene insieme, resistendo alla tentazione di anteporre i propri problemi o stati d’animo alla buona riuscita del momento collettivo. Rendendosi utili; contribuendo alle incombenze di ordine pratico. Godendosi la condivisione di spazio e tempo comuni. Si cucina insieme, si apparecchia, si mangia, si parla, ci si ascolta. In Danimarca, tutto ciò è talmente importante e radicato, che c’è addirittura un termine specifico per definirlo: si dice “hygge”. 

Sì, cari danesi.

Devo purtroppo fare i conti con una realtà, la mia, che è in genere più distonica e dissonante del garbato contesto nordico in cui tali deliziosi principi vengono in genere applicati. 
Nelle estreme propaggini meridionali del Paese mediterraneo a cui appartengo, quando è ora di mettere in pratica gli ottimi precetti, dobbiamo scendere a patti con la tara atavica del fare male ciò che potrebbe essere fatto meglio. 
Resta che il metodo danese è sicuramente buono: condivisibile, ragionevole, intelligente. Io ho sempre avuto, senza saperlo, idee danesi sull’allevamento dei figli; mi ritrovo, mio malgrado, ad operare con attrezzi forgiati nel Mezzogiorno. 
Mia madre, per dire, se le propongo di fare l’hygge, capisce “frigge” e butta l’olio in padella. Dalle mie parti, infatti, è la frittura che tiene unite le persone durante le adunate conviviali. Ma si sa che il calore porta disordine ed entropia. Il nostro togetherness, come minimo, ti impuzza i vestiti: per questo, nei secoli, siamo diventati irrimediabilmente fatalisti.

Ciononostante, sono convinta che qualche dritta danese faremmo bene a seguirla anche alle nostre latitudini. 


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