mercoledì 11 dicembre 2013

Se rinasco giovane


In principio era il motorino, incarnatosi nella Trimurti  Ciao - Sì - Bravo. 
Il più giusto era il Sì, con quella sua linea asciutta e snella, il pedale elegante, terribilmente sexy soprattutto nella versione blu. 

Né moto, né bici, era più un motorino da maschio - possibilmente figo - che scorrazza imprendibile nel traffico cittadino; talmente sottile, il Sì, da consentire sorpassi vertiginosi di auto in coda e slalom proibitivi tra macchine in sosta vietata. Nulla lo fermava, neanche la salita; solo che, la salita, specialmente se ti portavi dietro qualcuno, te la dovevi conquistare, aiutando il motore (anch’esso snello) con l’energica e volitiva pedalata di rinforzo. Il passeggero, nel frattempo, era sceso e se la faceva a piedi, finché la pendenza non diminuiva. Richiedeva prestanza fisica ed elasticità mentale, il Sì, e anche una fede incrollabile nelle proprie forze. E l’idea che non tutto ti era dovuto, come arrivare in cima a una strada in salita comodamente seduto. Era formativo, ecco. Il Sì era avventura, brivido dell’imprevisto (la benzina finiva senza avvertire), equilibrismo e velocità. Ma non c’era niente di più bello di un ragazzo bello sul suo Sì con una ragazza dietro abbracciata stretta (soprattutto se quella ragazza eri tu).


Poi c’era la Vespa 50, non la mitica Special, ma quella a tre marce, concepita specificamente per le femmine scorrazzanti. 

Velocità massima raggiungibile: 35 chilometri all’ora, ma solo se in discesa e col motore in folle. Vespa Bianca, da guidare sgasando tra un cambio e l’altro; le marce andavano cambiate a cazzo, mai con criterio (essendo una vespa per femmine). La Vespa 50 aveva una linea aerodinamica che produceva un curioso effetto ottico: slanciava la guidatrice, rigorosamente seduta in punta di sedile, pancia in dentro e sedere in fuori,  buco del culo stretto. Mai appoggiare il piede per tenersi in equilibrio rallentando: io riuscivo a tenerla in piedi anche cinque secondi da ferma. Poi il piedino veniva fuori di lato e hoplà, la gambetta si profilava in tutto il suo nitore, bella soda come può esserlo solo la gamba di una quindicenne. Niente casco, almeno all’inizio: e i capelli fonati non temevano di essere mestamente schiacciati contro il cranio producendo il temibile effetto “chioma pisciata”. 
Ci ho passato i miei vent’anni, sulla mia Vespa 50. E poi i trenta. 
Ci sono andata quando ero single, ci ho portato i miei fidanzati, me la sono contesa con le mie sorelle, persino con mio padre. 
Ci sono andata anche col pancione, piano piano, faccia al vento e libertà che ti viene ancora incontro, anche se pesi venti chili in più - cinque solo di tette - e ci hai l’utero abitato. 
D’estate, prendo le mie bambine e me le carico sulla vespa e poi facciamo un giro tutte insieme, senza casco, per le strade del paese. Mi faccio filmare da una sorella e poi mando il video ai miei suoceri e a mio marito, così, per rassicurarli sul fatto che le bambine stanno bene e si divertono. 

Il Sì e la Vespa 50 fanno parte del mio personale pantheon locomotorio; idolatrati e rimpianti, soprattutto mentre venivano sostituiti dagli orrendi scooter goffi, potenti ed esteticamente refrattari ad ogni tentativo di mitizzazione, nemmeno attraverso la miracolosa luce del ricordo che tutto trasfigura.

Fino a ieri mattina, quando ho capito che il presente non è sempre da buttare via per il solo fatto di non essere più il passato. 

Ore sette e cinquanta, in ritardo per la scuola, in macchina, piede impaziente sull’acceleratore, prima innestata; davanti a me una minuscola Apecar nera fiammante (cioè nera con fiamme gialle dipinte sui fianchi e sul retro); impreco tra i denti: proprio ora il vecchiarello sull’Apecar, non ci voleva, ci impiegherò una vita ad arrivare. E invece la coda si sblocca, l’Apecar sgasa, mi apre la strada fino al cortile di scuola. Con una svirgolettata veloce l’Apecar parcheggia; si apre la portiera, scende la mia alunna di prima F. E’ la più brava della classe; è miracolosamente bella (per avere quattordici anni e l’apparecchio ai denti), è alta, slanciata, naturalmente elegante. Non ha il casco, solo il portachiavi in mano. 
In classe la interrogo: ma l’Apecar è di tuo nonno? No, è mia, l’ho chiesta quando ho preso il patentino. Ma perché non uno scooter? Sorriso: d’inverno fa freddo, l’Apecar ci ha il riscaldamento. E poi è più sicura dello scooter.

Ecco, se rinasco giovane, non so più se preferirei tornare negli anni Ottanta sulla mia Vespa, oppure se non mi piacerebbe piuttosto essere una quindicenne strafiga del ventunesimo secolo che fa tendenza su un’Apecar nera fiammante. 

Ma probabilmente sceglierei l'Apecar, perché l'eterno ritorno, sai che palle.





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3 commenti:

  1. meglio il califfonone,che era a briolo,che cadyta che ha fatto mariella

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  2. Ai miei tempi c'era la bicicletta, ma il mio papa' non ha voluto comprarmela x paura che cadessi, io prendevo la sua e cadevo lo stesso. Sono anche caduta dalla sua vespa. Ero proprio "na ntamata".

    ela
    a voluto comprarmela

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    1. Beh, a proposito di 'ntamate, ti dico solo che mia sorella è riuscita a cadere da un'apecar.

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